Jean-Paul Fitoussi (1942-2022)

Il 15 aprile 2022 è scomparso Jean-Paul Fitoussi. Lo ricordiamo qui di seguito prendendo a prestito dalla testata Domani (cui vanno i nostri ringraziamenti, così come all’autore) l’articolo di Francesco Saraceno, collega di Fitoussi all’Ofce e coautore di molti dei suoi recenti lavori. Riportiamo anche la recensione di Mario Cedrini all’ultimo saggio dell’economista francese, tratta da L’Indice dei libri del mese (grazie anche in questo caso). Ci limitiamo ad accompagnare i due articoli con scatti tratti dal Convegno annuale STOREP del 2008, intitolato “Evoluzione delle teorie del mercato”, tenutosi presso la LUISS a Roma. In quell’occasione, fu proprio Fitoussi a celebrare l’opera di Axel Leijonhufvud; e a ricordarci l’importanza di contrastare la concezione tecnocratica dell’economia, come la definisce qui sotto Saraceno, in primis per mezzo di una visione attenta alla dimensione storica e disposta alla riflessione metodologica sulla disciplina.

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Il rigore e l’indipendenza di Jean-Paul Fitoussi
Francesco Saraceno, Domani, 16 aprile 2022 (https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/jean-paul-fitoussi-economista-morte-yw7abf3v)

È difficile trasmettere, in poche righe e in un momento di forte emozione, l’importanza che ha avuto la figura di Jean-Paul Fitoussi nel dibattito europeo e italiano.

Jean-Paul era in primo luogo un brillante economista. La sua tesi di dottorato, su Inflazione, equilibrio e disoccupazione pubblicata nel 1971, conteneva un’analisi sul legame tra attività economica e inflazione che andava ben oltre la controversia monetarista dell’epoca, e la cui importanza salta agli occhi in queste settimane.

In quegli anni ha anche contribuito, uno dei pochi economisti non anglosassoni, al dibattito sui fondamenti microeconomici della macroeconomia, che è stato uno degli elementi del rilancio della teoria keynesiana dopo la rivoluzione delle aspettative razionali.

Ma nonostante fosse promesso ad una brillante carriera accademica, e non abbia mai smesso di fare ricerca, Fitoussi ha presto preso un’altra strada, diventando l’intellettuale engagé che conosciamo.

I LAVORI

È questo il senso del suo impegno nella fondazione e poi nella direzione dell’Ofce, il centro di economia applicata di Sciences Po creato quando le élites erano ancora convinte che la formazione di un uomo di Stato debba limitarsi al diritto e alle scienze politiche.

Dall’Ofce Fitoussi ha nutrito il dibattito pubblico europeo e della sua amata Italia (dove era stato all’Istituto Europeo di Fiesole e dove tornava appena possibile). Europeista convinto, fu tuttavia da subito un critico feroce dell’impianto neoliberale della costruzione europea.

Il tema è al centro di uno dei suoi libri più belli, Il dibattito proibito (1997), nel quale Fitoussi si concentrava sul progressivo rattrappimento di un discorso pubblico marcato da un pensiero unico che, restringendo lo spazio per visioni alternative, conduceva ad una sorta di autocensura di intellettuali e policy maker nel dibattito sulla forma da dare all’Europa.

Proprio il suo ultimo lavoro italiano, La neolingua dell’economia, ha idealmente chiuso il cerchio riprendendo il discorso sull’asfissia del dibattito pubblico, purtroppo senza la combattività del dibattito proibito ma piuttosto con un tetro pessimismo sul futuro.

I lavori di Fitoussi sull’Europa, molti dei quali mi onoro di aver cofirmato, hanno di continuo insistito sulle caratteristiche fondamentalmente deflattive (ma non inevitabili) della moneta unica.

Proprio qualche giorno fa, al telefono scherzavamo (solo a metà) su come il dibattito di questi mesi sulla riforma delle istituzioni europee avrebbe potuto cominciare quindici anni fa, se solo si fossero fatte le letture giuste all’inizio degli anni Duemila.

L’umanesimo, la lotta alla concezione tecnocratica dell’economia, è il filo rosso che lega tutta la traiettoria di Fitoussi e che spiega come nel 2009 egli sia stato l’ispiratore della Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi sulla misura del benessere oltre il Pil; un lavoro che ha portato i suoi frutti e che mai Fitoussi ha interpretato come un viatico per la decrescita, ma piuttosto come l’imperativo di rimettere la distribuzione del reddito al centro delle politiche pubbliche.

Già prima della crisi del 2008 la disuguaglianza e i suoi effetti sulla crescita, sugli investimenti, sugli squilibri finanziari erano al centro delle preoccupazioni di Fitoussi, che negli anni ha contribuito al dibattito sulla tensione tra democrazia e mercato e sulla necessità per lo stato di ritrovare quel ruolo di regolatore e di intermediario tra cittadini e poteri economici che aveva avuto negli anni d’oro della socialdemocrazia.

Ora che quel consenso neoliberale contro il quale Fitoussi si è battuto per tutta la vita non è più granitico come prima, i mille spunti di riflessione dati dalla sua opera saranno utilissimi. Non posso però, in conclusione, esimermi da un ricordo personale. Per me Jean-Paul è stato un Maestro, un collega, soprattutto un amico.

DIFENDERE LE PROPRIE CONVINZIONI

È lui che mi ha accolto a Sciences Po, ormai venti anni fa (su insistenza di un amico, il colloquio non era andato bene!); e che poi mi ha onorato di una fiducia che è servita da base per una collaborazione durata fino a oggi.

Nel suo ufficio, in mezzo a nuvole perenni di sigaretta, si parlava e si scriveva di Europa, di teoria economica, di disuguaglianza, di democrazia. Soprattutto, io imparavo giorno dopo giorno che il rigore e l’indipendenza di giudizio sono l’unico passaporto per diventare autorevoli in una professione sempre più dilaniata dalla guerra per bande.

È sicuramente questa la lezione più importante di Fitoussi: mai far mistero delle proprie convinzioni e, pur essendo rigoroso nel ragionamento, mai ammantarle di presunta oggettività “scientifica”. Non è un caso che nonostante l’etichetta di keynesiano fosse uno degli intellettuali più consultati (anche se purtroppo raramente ascoltato) da politici e uomini di governo, che fossero a destra o a sinistra: parlare con tutti, farsi arruolare da nessuno.

In questo giorno di grande tristezza ho una certezza: praticare quotidianamente il rigore e l’indipendenza al servizio del dibattito pubblico è il modo migliore per far continuare a vivere Jean-Paul Fitoussi.

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Per impedire che le cose siano dette
Mario Cedrini, L’Indice dei libri del mese, febbraio 2020
(https://www.lindiceonline.com/osservatorio/jean-paul-fitoussi-la-neolingua-delleconomia-primo-piano/)

Jean-Paul Fitoussi, LA NEOLINGUA DELL’ECONOMIA
Ovvero come dire a un malato che è in buona salute
a cura di Francesca Pierantozzi, pp. 192, € 17, Einaudi, Torino 2019

Per indagare l’evoluzione della disciplina economica nel tempo, è ormai consolidato l’utilizzo di algoritmi statistici che – nella maggior parte dei casi – rintracciano regolarità, e dunque struttura, nella co-occorrenza delle parole utilizzate negli articoli pubblicati dagli economisti. Le principali difficoltà di interpretazione originano proprio dal fatto che l’analisi ha per oggetto le parole, e non i concetti: e nel “contare”, rozzamente, gli algoritmi non consentono di distinguere i casi in cui, ad esempio, il termine “complexity” è utilizzato per indicare un programma di ricerca (la complexity economics) da quelli nei quali ci si riferisce alla complessità di un problema. Non è solo un problema di polisemia: è che lo stesso termine – tanto più in un’era di frammentazione (in mille programmi di ricerca) come quella che, complice la specializzazione, la disciplina vive – assume connotati radicalmente alternativi a seconda che sia associato a prospettive neoclassico-ortodosse (la complessità è, per continuare con l’esempio, un inutile fardello che una scienza sociale rigorosa come l’economia deve necessariamente eliminare) o ad approcci non dominanti o eterodossi (la complessità è allora l’oggetto d’indagine). L’esatto opposto, insomma, del problema esposto nel libro-intervista a Fitoussi. Qui si presenta il paradosso di un’economia che, invece, rende di fatto inattaccabile la “teoria immaginaria” che la domina (quella appunto dell’ortodossia neoclassica) “inventandosi” un linguaggio che poi utilizziamo “per piegare la realtà ai nostri bisogni, per limitare la comprensione al frammento più improbabile del reale”, come illustrato brillantemente nella recensione qui a fianco.

La neolingua orwelliana dell’economia serve a eliminare la possibilità di dissenso: non c’è alternativa, perché la diffusione della neolingua impedisce di esprimerla, e alla fine anche di pensarla. Occorrerebbe qualche riflessione in più, evidentemente, su come sia stato possibile sviluppare la neolingua, sulle ragioni che hanno creato l’opportunità per farlo. Ma Fitoussi coglie nel segno. Cent’anni fa, John Maynard Keynes accusava i policy-makers non solo, e non tanto, di farsi indebitamente influenzare dall’opinione pubblica, quanto di non saper (o voler) utilizzare le loro capacità di persuasione per orientarla verso la ragionevolezza e ridurre così il divario che la separa dall’opinione informata dell’élite. Al contrario, Fitoussi ricorda oggi che il problema ha una sua dimensione autonoma dalla politica stessa: i policy-makers finiscono per essere essi stessi vittime di un dogmatismo dottrinale che impedisce di pensare persino alle alternative che già esistono (la domanda, l’intervento dello stato, ecc.).

Il 2020 è più triste del 1984. Le riforme sono “strutturali”, e fanno male, ma bisogna sopportarle, sono sacrifici necessari. La disoccupazione è “volontaria”, la fiducia è “dei mercati”, la banca centrale deve essere “indipendente”, perché i governi sono di natura cattivi. Il debito, e solo il debito, è “sovrano”: fa ridere, perché effettivamente si tratta dell’unica associazione consentita con il termine. Abbiamo costruito un linguaggio nuovo: un po’ per scimmiottare il Burgess di A Clockwork Orange, che inventò uno slang giovanile immaginario per evitare che invecchiasse col tempo – la lingua di Arancia Meccanica è il “Nadsat” immaginato nel “planetario” (la testa) di Alex (Drugo) quando parla con i suoi “soma” (compagni) Pete, Georgie e Bamba – e un po’, effettivamente, perché ci si è assurdamente convinti che della teoria, delle alternative, si può fare a meno (il problema della macroeconomia è “risolto”: sic Robert Lucas nel 2003). Di qui il parallelo con la distopia di Orwell e il “bispensiero”, che consente appunto di non fuoriuscire mai dall’alveo ortodosso. Non è un caso che l’economia non sia più “politica”, come osserva efficacemente Fitoussi, e che si provi imbarazzo – rinunciando per un attimo alla neolingua e utilizzando ancora quel termine – a ricordare che in democrazia non possiamo disinteressarci del destino della maggioranza.

Alla fine tutti cadiamo nella trappola: “accettiamo di limitare il vocabolario ai termini che non disturbano chi governa”. Ha ragione, Fitoussi: parlare sempre di riforme “strutturali” significa concepire esclusivamente quelle. Si prenda un esempio a caso, la Press release 19/257 (28 giugno 2019) nella quale il Fondo monetario internazionale brinda ai risultati ottenuti dall’Ecuador, cliente a volte ribelle (e come si vedrà, la ribellione nulla ha modificato, nei termini – le parole! – degli accordi con il Fondo) ma in fondo fedele: disciplina fiscale, razionalizzazione delle spese pubbliche, debito sostenibile. Discrezione nelle politiche? Reduced! E il mercato del lavoro? Riformato, per alimentare competitività prima e crescita poi, con provvedimenti (traduciamo) “che facilitano le assunzioni e riducono le rigidità”. Neolingua, naturalmente, quella dell’immaginario neoliberista. Che significa, si noti en passant, che nulla è in realtà discusso (“la neolingua serve per impedire che le cose siano dette. E i procedimenti per impedirlo rasentano a volte l’intimidazione”, ricorda Fitoussi). “Efforts to increase transparency and governance will also help safeguard public resources and promote a business environment supportive of growth and job creation”. Giusto: cioè? Ma intanto diciamo: giusto. Il cioè sarà illustrato a cose fatte.

È questo il senso dell’illuminante studio sull’evoluzione linguistica dei rapporti della Banca Mondiale nel tempo condotto dall’inventore del distant reading Franco Moretti (l’idea di guardare a grandi corpora di documenti, per tornare agli algoritmi, evitando di privilegiare l’unicità dello specifico documento e anzi focalizzando l’attenzione su ciò che vi è di comune – le regolarità, appunto, i pattern – in molti dei documenti dell’archivio). Intitolato “Bankspeak”, guarda caso – come la Newspeak di Orwell – l’articolo scritto da Moretti con Dominique Pestre (pubblicato sulla “New Left Review”, 92, marzo/aprile 2015) dimostra che la neolingua non è neutrale. Cosa fa la Banca mondiale? 1955: “Con il finanziamento della Banca per lo sviluppo, è stato portato a termine un moderno impianto di torrefazione nei pressi di Jimma, centro di una importante zona di produzione per il caffè”. Ancora: “Ad Addis Abeba e a Gondar sono stati installati centralini telefonici automatici, e manuali in altre città”. E così via: si descrivono risultati (i verbi al passato). Concreti. Localizzati. Che si possono verificare. 2008: “Ci sono paesi della regione che stanno emergendo come attori chiave su temi di interesse globale, e il ruolo della Banca è stato di sostenerne gli sforzi  collaborando attraverso piattaforme innovative in vista di un dialogo aperto e dell’azione sul terreno”. Giusto: cioè? La banca non finanzia più. Diventa partner. Dialoga. E si perde precisione, concretezza. Gli aggettivi descrivono una banca “buona”; l’enfasi è sul processo, i risultati svaniscono. Si passa alla paratassi, a un presente non storico. Viene meno, in altri termini, il significato: potenza della neolingua.

“Se i disoccupati sono dei fannulloni – come si dice – non bisogna concedere sussidi. Nessun sussidio di disoccupazione, nessun disoccupato. Ed ecco risolto il problema della disoccupazione”. Sembra cabaret, quello di Fitoussi. Ma ad accorgersi dell’inghippo saranno pochi “soma”, ancora capaci di riconoscere, al di là delle “mottate” della neolingua dell’economia, il cinismo dell’Europa.