“Un ricordo di Andrea Ginzburg”, di Annamaria Simonazzi

Un ricordo di Andrea Ginzburg[1]
di Annamaria Simonazzi

Andrea è stato tra i primi docenti della Facoltà di Economia di Modena, creata nel 1968, e ne è stato uno dei principali animatori quando, negli anni settanta, la facoltà richiamava studenti e giovani studiosi dalle più diverse parti d’Italia e dalle più diverse discipline. Io ho avuto la fortuna di essere fra quegli studenti, entrando poi a far parte di quel folto gruppo di ex studenti che ora occupano posizioni nell’accademia e nelle istituzioni nazionali e internazionali, e che si riconoscono ancora per l’impronta lasciata da quegli anni.

Si sono usati molti aggettivi per raccontare Andrea: eclettico, colto, curioso, non convenzionale, aperto, di grande intelligenza. Vorrei riprenderli qui nel raccontare la storia della mia amicizia e del mio lavoro con Andrea.

Innanzitutto, il ruolo dell’economia nel suo rapporto con la storia e le scienze sociali. Nel raccontare i primi anni della facoltà di Economia di Modena[2], Nando Vianello – anch’egli fra i principali animatori di quel periodo e legato ad Andrea da un forte sentimento di amicizia e di stima, osserva che negli anni ’70 il programma scientifico del gruppo era quello di organizzare elementi di spiegazione del mondo reale intorno alla critica di Sraffa, travalicando i confini fra l’economia e le altre scienze sociali, confini che erano ignoti a Smith e Marx. Credo che questo sintetizzi bene il programma ricostruttivo di Andrea.

Andrea non ha seguito certamente un cammino convenzionale. L’economia, come intesa oggi, gli stava stretta. Si è sempre rifiutato di accettare i rigidi confini entro cui sono stati incasellati e tenuti separati i vari rami delle scienze sociali e ha fatto proprio il programma di Hirschman di liberarci dalle ‘gabbie mentali’ che costituiscono ostacoli alla comprensione della realtà e, presentandoci sequenze che appaiono obbligate, impediscono la ricerca di azioni capaci di cambiarla[3]. In ogni suo scritto, si gettava un ponte fra l’analisi del problema in esame, la teoria, il contesto storico e politico, dando così sostanza e significato all’economia. E questa capacità di fare connessioni fra teorie e discipline, di rovesciare schemi, teorie, spiegazioni ormai diventati luoghi comuni lo rendeva un interlocutore prezioso per i più giovani e per i suoi amici. Affascinava innanzitutto i giovani, sempre più insofferenti di insegnamenti improntati al pensiero unico, che mortificavano la capacità di analisi critica e l’esercizio del dubbio.

Sempre curioso e aperto, gli piaceva l’insegnamento per l’occasione che gli offriva di trasmettere e ricevere stimoli, come arena di discussione e di confronto. Amava discutere, insegnare, ascoltare, senza distinzioni di sedi: dalle aule universitarie agli incontri organizzati dal sindacato e dalla “società civile”. Una costante in tutte queste iniziative “didattiche” era l’attenzione e il rispetto per l’interlocutore, anche per le idee più strampalate. Nessuna mediazione invece con l’ortodossia economica, con chi era incapace di uscire dalle “gabbie mentali” del “non c’è alternativa”. Il suo forte fastidio per l’omologazione intellettuale e per i danni che questa provocava si traduceva in critiche anche aspre, supportate da solide basi teoriche. Con acume e intelligenza metteva a nudo gli apriori ideologici, le incongruenze, l’uso superficiale o opportunistico dei dati. Come nella discussione sui differenziali salariali fra il Nord e il Sud (1998)[4], quando denunciava come dietro ai dati che mostravano salari più elevati al sud, che avevano creato tanto scalpore, si celava in realtà un errore di stima, dovuto alla sotto-dichiarazione delle ore di lavoro da parte delle imprese meridionali.

Se eccelleva nell’analisi critica, non mancavano mai nei suoi saggi intuizioni capaci di dare un tocco speciale al lavoro: guizzi di intelligenza, intuizioni, ma anche capacità di costruire elementi di una visione d’insieme partendo dall’osservazione attenta e spregiudicata della realtà e dal riconoscimento della complessità dei fenomeni e dunque della necessità di analizzarli nella loro interazione con il contesto. Da analisi apparentemente circoscritte si poteva così arrivare a proposizioni teoriche più generali. Per esempio le indagini approfondite sull’industria meccanica di Reggio Emilia[5] facevano emergere il ricco tessuto di interrelazioni verticali e orizzontali, di gruppi e di reti di imprese, che suggerivano riflessioni originali e importanti contro le interpretazioni prevalenti della mancanza di competitività dell’industria italiana ancora fondate sulla finzione dell’impresa “isolata”.

Come co-autore era stimolante e tollerante insieme. Leggeva moltissimo e scriveva velocissimo. Idee, intuizioni, riferimenti storici, sconfinamenti si rincorrevano e si intersecavano. Non mancanza di rigore, tutt’altro, ma urgenza di tenere conto e di dare conto della complessità. Credo che qui gli scambi con David Lane, Giovanni Bonifati, Margherita Russo ai tempi della Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia di Reggio Emilia, di cui era stato fra i fondatori, abbiano contribuito a rafforzare una già forte attenzione alla complessità e alla necessità di analisi multilivello, contro la semplificazione della lettura e dell’interpretazione della realtà. La complessità, l’interazione, il cambiamento, la molteplicità degli aspetti, anche contraddittori, sono caratteristiche importanti sempre presenti nella sua analisi. Nella sua introduzione alla raccolta dei Discorsi parlamentari[6] di Vittorio Foa, la sua descrizione ben riassume la sua stessa posizione. “L’attenzione di Foa … per i conflitti interni al mondo del lavoro nasce dalla rottura del tabù dell’esistenza di un’unica principale contraddizione che annulla tutte le altre, quella fra capitale e lavoro. Questa nuova prospettiva consente di scorgere non in sostituzione ma accanto alle relazioni e ai conflitti verticali le relazioni e i conflitti orizzontali, cioè interni alle classi, ai generi, alle zone geografiche del centro e della periferia, e financo i conflitti entro se stessi. Una rottura culturale iniziata con la critica della centralità operaia si spinge quindi molto oltre, fino a investire l’idea stessa di centralità, intesa come gerarchia, come assenza di riconoscimento delle diversità, come processo di assoggettamento che può assumere la forma solo apparentemente alternativa dell’assimilazione e dell’annientamento”. E conclude il suo commento citando il Foa de Il cavallo e la torre[7]: “Il centralismo è sempre una spirale; si è geocentrici nell’universo, antropocentrici nel rapporto con la natura, egocentrici nei rapporti con le persone”. L’attenzione per i conflitti orizzontali è presente ancora nell’ultimo libro scritto insieme[8], dove si sottolinea la compresenza, accanto ai divari fra nord e sud dell’Europa, di divari orizzontali: ricchezza e povertà coesistono al centro come nella periferia dell’Europa, il conflitto verticale che contrappone operai e capitalisti può complicarsi in coalizioni di interessi, come nel caso dell’aristocrazia operaia tedesca all’epoca delle riforme Hartz.

Alternava, o meglio integrava, il suo profondo interesse per l’analisi dell’economia reale con gli studi nel campo della storia e dell’analisi economica. Negli ultimi tempi era particolarmente preso dallo studio del programma scientifico di Sraffa e Gramsci[9], trovando un’attenta interlocutrice in Antonietta Campus. Ma ha voluto scrivere il libro sull’Unione monetaria europea, che veniva dopo una serie di lavori su centro e periferia della zona euro che avevamo fatto insieme, perché sentiva la necessità di un’analisi libera da quelle ‘gabbie mentali’ che, presentandoci sequenze che appaiono obbligate, impediscono la ricerca di azioni capaci di cambiare la realtà.

[1] I riferimenti agli scritti di Andrea Ginzburg sono accessibili sul sito: http://www.andreaginzburg.unimore.it/site/home.html.

[2] Fernando Vianello, La facoltà di Economia e Commercio di Modena, in G. Garofalo  e A. Graziani (a cura di) La formazione degli economisti in Italia (1950-1975), Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 481-534.

[3] A. Ginzburg, L’attualità di un dissenziente: l’idea di sviluppo in Albert O. Hirschman, Moneta e Credito, 2014, 67(266), 205-226.

[4] Ginzburg, A., Scaltriti, M., Solinas, G. e Zoboli, R., Un nuovo autunno caldo nel Mezzogiorno? Note in margine al dibattito sui differenziali salariali territoriali, Politica Economica, 1998, 14(3), 377-410.

[5] Ginzburg, A. e Bigarelli, D., I confini delle PMI, Api di Reggio Emilia, 2004; Ginzburg, A., Le porte del cambiamento. A proposito di alcune recenti interpretazioni del ristagno dell’economia italiana, Economia & Lavoro, 2005, 38(2), 5-20.

[6] Vittorio Foa, Discorsi parlamentari, Camera dei Deputati, Roma 2014, con introduzione di Andrea Ginzburg.

[7] V. Foa, Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, Torino, 1991.

[8] Celi, G., Ginzburg, A., Guarascio, D. e Simonazzi, A., Crisis in the European Monetary Union. A Core-periphery Perspective, Routledge, London, 2018.

[9] A. Ginzburg, Two translators: Gramsci and Sraffa, Contributions to Political Economy, 2015, 34(1), 31-76.